Le ragioni delle ricerche di Storia e Cultura Popolare, che rappresentano una delle motivazioni di Ponza racconta, sono state più volte enunciate e, probabilmente, si ripresenterà la necessità di ribadirle.
Eduardo Ferri – frequentatore di Ponza, psichiatra, primario del Dipartimento di salute Mentale di Pomezia – bene esprime le motivazioni della ricerca nella prefazione al suo libro di racconti A dorso d’asino, un commovente e coinvolgente ritratto della realtà rurale irpina di una cinquantina d’anni fa.
L’Autore, nato a Calitri in Irpinia, vive ai Castelli romani ed è profondamente legato alla sua terra natale.
Una proposta di Rita Bosso
Il cielo terso del mattino di settembre; la fragranza del pane appena sfornato; la neve raccolta col mestolo dal tetto e resa deliziosa dal vino cotto; l’aspro odore delle vinacce che pervade i vicoli nei giorni di vendemmia; le ciotole colme di germogli di grano d’orzo e le lampade ad olio nei “sepolcri” del giovedì santo; l’olezzo degli animali che si fonde col vociare delle comari sedute sull’uscio di casa e lo schiamazzo dei bambini che si rincorrono per strada; il canto dei “cantatur”, sguaiato e struggente, che squarcia il silenzio della notte; i grembiuli neri e i fiocchi rossi, verdi e gialli degli scolaretti, sono solo alcuni dei ricordi impressi nella mia mente su cui l’oblio giammai potrà prevalere.
Questi racconti vogliono semplicemente tener desto il ricordo di un passato, neppure tanto lontano, che ha fortemente connotato le esperienze di vita dei suoi protagonisti, cresciuti in quella cultura antica, popolare e rurale, che il ritmo di vita moderna ha, nel tempo, disgregato.
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Vorrei riprendere alcune riflessioni che, 35 anni or sono, facevo nel mio libro “Strade in salita”: “L’attenzione che bisogna prestare a questa realtà umana – scrivevo – è giustificata unicamente da uno sforzo di comprensione nei riguardi di un complesso di valori e di comportamenti, come quelli del mondo rurale che, senza dubbio, sono in crisi ed in conflitto rispetto ai modelli di vita della società industriale.
Ritengo che i discorsi che si è soliti fare su questa realtà viaggino sulla pelle delle persone. Si dice che nei paesi la famiglia è patriarcale e che la crescita delle persone è ridotta ad un rigido accomodarsi a regole sociali già stabilite e tramandate; si dice che il livello culturale è basso e addirittura che la gente non ha nessuna voglia di istruirsi e che rimarrebbe volentieri ignorante; si dice ancora che la gente dei paesi non è libera di comportarsi e di pensare come persona autonoma, ma che continuamente deve piegarsi nella accettazione di giustificazioni e di motivazioni vecchie…
In altri termini, se la civiltà rurale in Italia sta avviandosi al tramonto, certo questo non si può semplicisticamente attribuire al fatto che i valori che essa rappresentava sono sorpassati e inutili; bisogna onestamente riconoscere il pesante condizionamento economico che ha gravato sulla progressiva disgregazione dei modelli paesani e rurali di esistenza. Naturalmente il dire questo non incoraggia la voce di nessuno dei nostalgici, che, magari risiedendo a Milano, scrivono articoli idilliaci sulla pace e la tranquillità agresti”.
Ne “Il mondo dei vinti”, Nuto Revelli descrive la storia della campagna povera del Cuneese, sconvolta dal terremoto dell’industrializzazione, attraverso le testimonianze dirette dei contadini e dei montanari della sua terra, gli emarginati, i dimenticati di sempre. “E’ la storia – egli dice – di mezza Italia, del nord come del sud, del Veneto come della Calabria”.
“Negli anni a cavallo del 1900 – scrive Revelli – il contadino che possedeva un fazzoletto di prato o di sterpaglie si considerava già ‘padrone’, e lottava per aggiungere altra terra alla terra, sopportando le fatiche e le privazioni più tremende. Si spiega anche così la ‘tranquillità sociale’ di allora, la mancanza di sussulti, spinte dal basso, ribellioni. Il piccolo proprietario, il padrone di miseria, smaltiva la rabbia non ragionandoci sopra, non cercando sia pure confusamente un discorso di classe, ma lavorando come una bestia”.
La struttura della famiglia era rigida, di tipo patriarcale. Era l’uomo a comandare. “La donna era la più sacrificata, – dice uno dei testimoni – ma in casa comandava perché l’uomo era quasi sempre via. Molte donne davano del ‘voi’ all’uomo, al marito, come segno di rispetto e di dipendenza. Ma poi in casa comandavano”.
Che comandasse o meno, la donna contadina non era molto di più di una bestia da soma. Alla donna si chiedevano una resistenza fisica e morale senza fine. L’uomo trovava il suo rifugio nell’osteria, il vino era la sua droga. La donna trovava il suo rifugio in chiesa, la messa e il vespro erano le sue occasioni per evadere. E, quando le cose andavano male, gli uomini si sfogavano con le donne picchiandole.
Il frazionamento della proprietà era l’inevitabile conseguenza del decesso del capo-famiglia: il piccolo podere, magari cucito a stento, si sbriciolava ad ogni successione.
L’agricoltura, nei paesi poveri del Sud come in quelli del Nord, era l’attività economica più importante. “Un’agricoltura povera, – ha scritto Teresa Di Maio – essendo intensiva e pastorale. Il centro della vita era la ‘masseria’ con i suoi animali, gli attrezzi, le provviste e gli uomini. Era formata da un fabbricato più o meno grande a seconda dell’importanza dell’azienda. Esso poteva consistere in un sol vano, abbastanza ampio, oppure si articolava su due piani. Nel piano inferiore erano ricoverati gli animali e i salariati, in quello superiore i padroni. I magazzini per il grano, il formaggio, ecc. potevano stare tanto nel piano inferiore quanto in quello superiore. Un poco più discosto, costruzioni basse a semicerchio, chiamate ‘pannizze’, servivano da ovili. I più poveri non avevano una casa in muratura, ma pagliai sia per loro che per gli animali. Alcuni vivevano insieme alle bestie in grotte, scavate nel tufo e chiuse alla meno peggio con un muro che poteva essere fatto con la malta o semplicemente a secco. Intorno alla masseria si estendevano i campi”.
A dorso d’asino, di Eduardo Ferri. Prefazione. (1) – Continua